Plastica: l’emergenza nei nostri piatti
Nell’ultimo periodo si sente tanto parlare di emergenza in merito ai materiali plastici che invadono gli oceani e che provocano la morte di molti esemplari abitanti degli abissi: risale solo al giugno scorso una delle ultime battute dell’ANSA in merito all’argomento, che dichiarava che le microplastiche sono state trovate in molti pesci che abitano il mar Tirreno (per maggiori approfondimenti, consultare il link http://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/inquinamento/2018/06/21/greenpeace-microplastiche-in-14-di-pesci-e-invertebrati_4c84d3ba-a9a4-40ae-8463-b3ea9c7cf1ab.html). Tuttavia, è bene sapere che per riscontrare il problema legato al contatto degli alimenti con le plastiche non è necessario guardare al mare, che può erroneamente sembrare lontano, ma è sufficiente guardare nei propri piatti, letteralmente.
La maggior parte degli imballaggi messi a contatto con gli alimenti ai fini protettivi, nonché molte delle stoviglie che abitualmente vengono utilizzate in casa, sono di materiale plastico o contengono strati di materiali polimerici, accoppiati eventualmente con film di altra natura.
Si tratta di un evento molto comune, nonché ammesso dalla legge: i primi riferimenti legislativi risalgono al 1973, con il decreto ministeriale del 21 marzo del ’73 in cui venivano stabilite le norme e i prodotti per i quali era permesso il contatto con gli alimenti, nonché i rispettivi limiti (in particolare nell’allegato A è presente l’elenco delle materie plastiche consentite, e nel B gli additivi che possono essere aggiunti). Il decreto ministeriale è stato poi integrato con un Regolamento CE (valido dunque in tutta l’Unione Europea), che riporta informazioni molto simili o in alcuni casi stringe il limite su qualche materiale (a causa, ad esempio, di evidenze scientifiche in merito).
Bisogna poi essere rassicurati in merito al rischio che queste materie plastiche, per quanto presenti entro i limiti legislativi, possano migrare negli alimenti: i prodotti alimentari, infatti, vengono sottoposti a rigorose prove di migrazione – regolamentate dal Regolamento CE 10/2011 – che ne garantiscono la caratteristica definita “inerzia”.
In base a quanto detto, dunque, contenitori sia domestici che industriali, possono ritenersi sicuri. L’emergenza nei nostri piatti, tuttavia, esiste, ed è legata a tre fattori di rischio correlati soprattutto a cattive abitudini dei consumatori.
Innanzitutto, è compito del consumatore assicurarsi che il prodotto sia idoneo per il contatto con gli alimenti: per verificarlo, basta cercare il simbolo del bicchiere e della forchetta, o una dichiarazione equivalente. Nel caso in cui nessuna delle due sia presente, è bene non acquistare quel contenitore poiché è probabile che i film polimerici possano riversarsi nell’alimento che esso contiene.
Il secondo fattore di rischio è legato a uno scorretto utilizzo di questi utensili. Molti di questi, ad esempio, non possono essere inseriti nel microonde o essere esposti a temperature elevate, quindi bisogna leggere attentamente l’etichetta.
Il terzo e ultimo fattore di rischio, che mette in pericolo l’intera comunità, è legato allo smaltimento: se non smaltiti adeguatamente, i materiali plastici possono entrare in contatto con altre specie viventi e ritornare all’uomo attraverso la catena trofica.
La plastica nell’alimento stesso
Se dal punto di vista legislativo la normativa è molto stringente in merito ai limiti delle materie plastiche nei prodotti alimentari – stando agli innumerevoli dati rilasciati dall’EFSA in merito – è altrettanto vero che un cattivo smaltimento di questi materiali può avere serie ripercussioni sulla salute dell’uomo e di tutte le altre specie (soprattutto marine, ma non solo).
Un documento pubblicato sul sito dell’EFSA nel 2016 fa il punto della situazione, con i dati disponibili in letteratura. Sino a quel momento, infatti, non vi erano testimonianze di presenza di nanoplastiche (particelle mille volte più piccole di un millimetro) nei pesci, mentre la letteratura proponeva già i primi indizi in merito alle concentrazioni di microplastiche (il cui diametro è nell’ordine dei millimetri o dei centesimi di millimetro) nei pesci o nei molluschi. Secondo i dati raccolti dall’EFSA, ad esempio, in una porzione di cozze si stima un contenuto di 7 microgrammi di microplastiche.
Dall’analisi della letteratura scientifica, nonostante i diversi studi legati al tema, non è ancora possibile stabilire una soglia di sicurezza in merito all’introduzione nell’organismo di questi organuli; c’è poi da sottolineare che, almeno per le microplastiche, il problema è confinato solamente al consumo di molluschi, in quanto l’apparato digerente dei pesci – nel quale si concentrano queste sostanze – non viene usualmente consumato.
Da quanto evidenziato dall’EFSA, dunque, si può dire che vi è ancora incertezza in merito alla sicurezza delle plastiche contenute all’interno dei prodotti ittici. Di certo non si può negare la loro presenza, poiché ormai le plastiche invadono i mari a causa di un errato smaltimento profuso negli anni, ed è ben noto anche l’effetto di alcune componenti di queste microplastiche, quali bisfenolo A e idrocarburi policiclici aromatici, che possono creare gravi interferenze con gli ormoni. Sebbene, dunque, non si possa ancora valutare con certezza l’esposizione a queste plastiche, è bene chiarire che il pericolo è presente, ed è compito di ogni cittadino far sì che l’inquinamento di bacini e corsi d’acqua non aumenti in maniera importante, per il bene dell’uomo e degli abitanti di questi habitat.